Welcome HOME

The officer all’aeroporto Jfk di New York ci ha detto “welcome home”.
Mi avevano detto che il benvenuto ai residenti permanenti (con in più un membro della famiglia americano) fosse ben diverso da quello di chi ha un visto o un’esta.
Peró quel “benvenuto a casa” un po’ mi ha stonato. È questa casa mia? O è Roma? Le sue strade che hanno supportato il mio peso, dapprima leggero e poi sempre più pesante, le guglie del mio bellissimo liceo, i semafori che da anni fanno sempre lo stesso lavoro e che mi danno il tempo; i miei amici, la mia famiglia, i miei vicini di casa. Le cassiere del supermercato con cui vuoi o non vuoi parli un po’.
Qui si parla poco. Qui si va di fretta. Perfino la macchinetta del caffè erutta in pochi minuti.
Qui si corre anche andando piano.

Ma anche questa è casa.
Una casa silenziosa. Con tutte le mie cose. Disposte esattamente come voglio io. Ma non è quella a cui farei ritorno se mi trovassi persa in un bosco di notte. Se potessi, rapinerei tutto il suo contenuto e rapirei i suoi abitanti e li porterei dove c’è l’altra mia casa.

Dove non ci sono tutte le mie cose, ma dove ci sono tutte le mie persone. E, sempre se potessi, rapirei anche quelle che ho conosciuto qui e che amo. Insegnerei loro a conoscere Roma, ad amarla, a tifare Lazio, a parlare romanaccio. O anche semplicemente solo a parlare con la gente per strada.

Sono sicura che dopo qualche giorno non vorrebbero mai più andar via. O forse sì, anzi sì.
Perché emigrare non è mai totalmente sintomo di felicità.
Andare via, non è mai totalmente una conquista.

Il passato non lo si lascia mai del tutto indietro. Nel bene. E nel male.

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